Giugno 2008. L’ultima emozione che si vive ad Anzaldo

15 Giugno 2008

Carissimi, oggi vi parlerò di Marco, l’ultimo piccolo paziente arrivato all’ospedale di Anzaldo. Marco proviene da una comunità dispersa, lontana da noi, proveniente dalle isolate montagne della regione più povera della Bolivia; il Nord Potosì. E’ arrivato in ambulanza in uno stato di pressochè completo abbandono, avvolto in quattro stracci, con un corpicino magro e uno sporco vecchio da tempo. La pelle indica, con visibili incrostazioni, che da lungo tempo non conosce l’azione dell’acqua e sapone. Ci raccontano che ha subìto un trattamento speciale: il rituale del “curandero”, che, secondo le credenze locali, serve per propiziarsi, con riti magici, la riappacificazione della “madre terra” con la persona ammalata.

Lo stregone ha fatto uccidere due pecore per avvolgere il bambino nella pelle ancora fresca di sangue. E’ un bambino di sette anni che piange sconsolato e non vuole che nessuno si avvicini per toccarlo. Solo chiede che suo padre, l’unico ad accompagnarlo, gli stia vicino e non lo abbandoni! Il medico che l’ha trasportato qui, insiste perchè sia accettato da noi in forma gratuita perchè, diversamente, significherebbe trasferirlo in città dove si dovrebbe distaccare da suo padre,il quale non ha i mezzi per vivere più giorni in cittá, e non saprebbe come fare durante i giorni del ricovero del suo bambino! La malattia di Marco è evidente: si tratta di una denutrizione cronica con una complicazione di rachitismo. Si presenta magro, con i piedi gonfi per mancanza di proteine, piangente per i dolori delle piaghe da decubito, affetto da broncopolmonite e con un piede e una gamba infettati per mancanza di difese. Ci dicono che non mangia da tempo e, ultimamente, rifiuta ogni cibo che sicuramente non è stato mai abbondante o, quantomeno, non vario perchè unicamente a base di patate e mais. Curiamo l’infezione del piede destro da cui eliminiamo un’abbondante quantità di pus. Marco i primi giorni ha avuto difficoltà ad accettare il nostro ambiente e il nostri camici bianchi, che vedeva attorno al letto durante la visita medica; oggi sembra abbia fatto la pace con noi superando l’iniziale terrore. Ci ha chiamati “wañuchidores” cioè quelli che uccidono, per via di quel necessario ago in vena che gli abbiamo infilato per fargli passare i liquidi della flebo con le vitamine. Ora ci accetta meglio e già non rifiuta il cibo che lo alimenta più volte al giorno e che lo fa star meglio. Suo padre si è fermato da noi, incaricandosi di piccoli lavoretti che gli abbiamo trovato per coltivare l’orto, in cambio di un piatto caldo. E’ questa la nuova emozione che si vive in ospedale e che voglio comunicarvi in amicizia!

Pietro

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